IL RE E IL DIO

ANALISI DEL DRAMMA

Per una ANALISI E FRUIZIONE dello SPETTACOLO

”Il re e il dio” utilizza la tecnica del teatro nel teatro, in quanto risulta composto di due dràmata:

  • un drama interno, cioè le Baccanti di Euripide
  • un drama esterno, quello agito dal Professore con i suoi Studenti

Il primo, i cui personaggi sono oggetto di osservazione da parte dei personaggi del secondo, si svolge in una dimensione mitica e classica, e richiede un linguaggio ed una recitazione di tipo retorico – tragico.

Il secondo, i cui personaggi osservano i personaggi del primo e a loro volta sono osservati solo dal pubblico, si svolge in una dimensione realistica e moderna, e richiede un linguaggio ed una recitazione di tipo naturale.

Le tematiche presenti nel testo sono essenzialmente tematiche del contrasto. Tali contrasti si possono raggruppare in tre sfere o ambiti principali:

  • una sfera psichica e individuale
  • una sfera sociale ed etnico – culturale
  • una sfera politico – religiosa

Nella prima sfera possiamo individuare la seguente serie di opposizioni:

conscio            vs.         inconscio

super io             vs.         es

sublimato         vs.         rimosso

censura            vs.         libertà

insoddisfazione vs.         soddisfazione

ragione             vs.         istinto

ordine               vs.         disordine

maschio           vs.        femmina

differenza         vs.         uguaglianza

per chiudere con

individualità      vs.       comunione (comunità)

Nella seconda sfera possiamo vedere ed evidenziare i seguenti contrasti:

comunità aperta           vs.        comunità chiusa

nativo                          vs.        straniero

greco                           vs.        barbaro

europeo                       vs.        extraeuropeo

occidente                     vs.        oriente

e tutto si può irrigidire in opposizioni del tipo:

evoluto                         vs.        primitivo

civile                            vs.        incivile

accoglienza                  vs.        rifiuto

fiducia                          vs.        diffidenza

integrazione                 vs.        emarginazione

incontro                       vs.        scontro

amico                          vs.        nemico

pace                            vs.        guerra

Fanno parte di questo ambito anche le opposizioni:

Apollo                          vs.        Dioniso

scienza                        vs.        fede

artificiale                      vs.        naturale etc.

Infine, nell’ultima sfera (che in realtà è già di per sé un contrasto, o una duplicità), è possibile precisare altre opposizioni:

naturale                                   vs.        soprannaturale

materiale                                  vs.        spirituale

umano                                     vs.        divino

profano                                    vs.        sacro

laico                                        vs.        religioso

comunità dell’uomo (polis)         vs.        comunità di Dio (coro o tiaso)

potere politico                           vs.        potere religioso

Lo scontro fra i due poteri e le rispettive esigenze conduce ad un’altra possibile serie:

tirannia                                    vs.        libertà

tradizione                                 vs.        innovazione

conservazione                          vs.        rivoluzione

strutturazione (in classi)            vs.        destrutturazione (interclassismo)

legge del re                              vs.        parola del sacerdote (o dio)

Penteo                                     vs.        Tiresia (e poi Dioniso)

Pilato                                       vs.        Cristo

Lo spettacolo, esito finale e più importante del “Progetto Baccanti” (varato nell’a. s. 2009/2010), ha tre obiettivi fondamentali:

  • un obiettivo drammaturgico
  • un obiettivo culturale
  • un obiettivo didascalico

Il primo obiettivo consisterà nel rappresentare le Baccanti di Euripide e, in parallelo, nel rappresentare una rappresentazione (ovvero una interpretazione possibile) delle Baccanti stesse.

Il secondo obiettivo si potrà articolare in tre parti:

  1. suscitare una riflessione sul laicismo e sui suoi aspetti, positivi e/o negativi
  2. evidenziare l’esigenza e i diritti ( ma anche i rischi) del sacro
  3. proporre la similitudine Dioniso – Cristo

Il terzo ed ultimo obiettivo consisterà nell’illustrare alcuni aspetti inquietanti del mondo greco e della sua religiosità, nonché alcuni caratteri della tragedia greca.

FONTI

Tra le fonti utilizzate per la stesura del testo “Il re e il dio”, oltre naturalmente alle Baccanti euripidee, sono da evidenziare:

  • la Bibbia e i Vangeli
  • i Padri della Chiesa: Clemente Alessandrino e le sue opere (Protreptico, Pedagogo, Stròmata)
  • Giacomo Leopardi (La ginestra, per il Primo Stasimo)
  • F. Nietzsche (La gaia scienza, per la scena dell’Uomo Folle; La nascita della tragedia)
  • P. G. Odifreddi (Il vangelo secondo la scienza. Le religioni alla prova del nove)

IL MITO TEBANO

 

Agenore, nato da Poseidone e da Libia, era sovrano della città fenicia di Tiro. Dalla moglie Telefassa ebbe tre figli maschi ed una figlia femmina, bellissima e da lui particolarmente amata e custodita: Europa. Ma Zeus se ne invaghì perdutamente e decise di rapirla. Assunto l’aspetto di un grazioso torello giocherellone, fece in modo che la fanciulla gli salisse in groppa e quindi se la portò via, attraverso terre e mari. Giunto a Creta, si unì a lei. Da Zeus ed Europa sarebbe nato Minosse, destinato a regnare sull’isola.

Agenore intanto aveva ordinato ai suoi figli maschi (Cadmo, Fenice e Cilice) di mettersi alla ricerca della sorella e di non ritornare a casa senza averla ritrovata; poiché nessuno di loro riuscì nell’impresa, i tre giovani si stabilirono in regioni diverse e lontane, ove fondarono città e diedero origine a nuove stirpi, che da loro avrebbero preso nome.

Cadmo, giunto in Grecia, non sapendo più che fare, aveva consultato l’oracolo di Delfi: questo gli aveva imposto di cessare la ricerca e di seguire una giovenca, fondando una città nel luogo in cui l’animale si fermasse al pascolo. Ebbe origine in tal modo la città di Tebe, la cui rocca fu chiamata Cadmea. Cadmo uccise poi il drago posto a guardia delle fonti di Ares e, per consiglio di Atena, ne seminò i denti: subito emersero dalla terra molti uomini armati, che presero a lottare e a uccidersi a vicenda, finché non rimasero che cinque superstiti. Costoro ( conosciuti come gli Sparti, cioè “i seminati”) furono i capostipiti della nobiltà tebana: Echione, Ctonio, Udeo, Peloro, Iperenore. Cadmo dovette espiare per lunghi anni l’uccisione del sacro drago, servendo come schiavo il dio Ares; ma poi ricevette in sposa la figlia di questi e di Afrodite, Armonia, e poté regnare su Tebe. Purtroppo tra i doni di nozze vi erano un peplo ed una collana (splendide opere di Efesto, ma segnate da una oscura maledizione) che avrebbero portato sventura a chi li possedeva: per questo motivo tutta la stirpe di Cadmo fu sempre bersaglio di avversità fatali e terribili. Circa la fine di Cadmo e Armonia si narra che furono entrambi mutati in serpenti o dragoni e che , dopo un certo tempo, siano stati assunti fra gli Dei.

Da Cadmo e Armonia nacquero quattro femmine ( Autonoe, Ino, Semele, Agave)  ed un solo maschio, Polidoro: di costui però non si fa cenno nelle Baccanti di Euripide, ove il vecchio Cadmo in persona, lamentando la mancanza di eredi, afferma  di aver lasciato il trono al nipote Penteo, figlio di Agave e di Echione (cfr. nella nostra versione Episodio IV, Scena 6).

Autonoe, la primogenita, aveva sposato Aristeo, esperto agricoltore e apicoltore, figlio di Apollo e di Cirene, celebre per avere causato involontariamente, da giovane, la morte di Euridice, la bella e virtuosa moglie del poeta Orfeo, della quale si era innamorato. Dalle nozze con Aristeo, Autonoe ebbe Atteone, abilissimo cacciatore: il giovane, avendo osato guardare Artemide nuda bagnarsi a una fonte, venne mutato in cervo e sbranato dai suoi stessi cani. Autonoe ebbe anche una figlia femmina, Macride, che fu una delle nutrici di Dioniso bambino, al quale dava come cibo il miele delle api paterne.

Ino andò invece sposa ad Atamante, re di Orcomeno in Beozia. Costui aveva già in moglie Nefele, la dea delle nuvole figlia di Eolo, che gli aveva dato due figli: Frisso ed Elle.  Per amore di Ino, Atamante aveva ripudiato Nefele e lasciava che i suoi figli venissero maltrattati dalla nuova compagna; per questo la dea mandò il montone dal vello dorato a prelevarli e a condurli in salvo. Come è noto, Elle perì in mare durante la traversata di quello che poi si sarebbe chiamato Ellesponto (“mare di Elle”), mentre Frisso giunse nella lontana Colchide, ove fu accolto dal re Eeta e sacrificò a Zeus il fatato montone. La successiva riconquista del suo vello d’oro sarebbe stata compiuta da Giasone e dagli Argonauti.

Ino intanto aveva dato ad Atamante altri due figli: Learco e Melicerte. Ma Nefele, per vendicarsi, suscitò in Atamante una feroce follia e questi un giorno, dopo avere sgozzato il povero Learco, prese ad inseguire Ino e il piccolo Melicerte con l’intenzione di uccidere anche loro. La donna, fuggita sulla riva del mare, si gettò fra le onde stringendo al seno il bambino: a quel punto gli Dei si impietosirono e fecero di Ino e di suo figlio due divinità marine: così la figlia di Cadmo divenne Leucotea (la “dea bianca”); la si incontra nell’Odissea (V, 313-364) , dove soccorre pietosamente il naufrago Ulisse.

La figura di Semele entra in uno dei miti più importanti: quello della nascita di Dioniso. Amata da Zeus, ella aveva concepito e portava nel grembo un figlio. Offesa per l’ennesimo tradimento coniugale, la dea Era ingannò l’ingenua fanciulla e, assunte le sembianze della sua vecchia nutrice Beroe, la convinse a chiedere a Zeus una prova d’amore: il dio (se davvero era un dio, e non un imbroglione …) avrebbe dovuto concederle qualsiasi cosa lei desiderasse! Semele pregò con femminile insistenza il sommo amante di mostrarsi nel suo autentico aspetto, restando incautamente folgorata dalla luce che emanava dalla sua persona divina. Zeus allora estrasse il bimbo, ancora vivo, dal grembo materno e se lo cucì in una coscia. La portentosa vicenda viene rievocata dal Coro delle Baccanti nella Parodo. Più tardi, Dioniso sarebbe disceso agli Inferi per trarne la madre e condurla con sé all’Olimpo, a vita immortale.

Venuto alla luce, il piccolo Dioniso fu consegnato da Zeus ad Ermes, il quale lo riportò sulla terra, affidandolo alle cure delle sue stesse zie materne: Ino, Agave, Autonoe. In verità, esse non lo riconobbero mai come dio, ed anzi continuarono a sostenere che la defunta sorella era stata punita con la morte proprio per il suo falso vantarsi  di essere stata l’amante di Zeus.

Nel Prologo delle nostre Baccanti, Dioniso stesso afferma:

“ … le sorelle di mia madre (proprio loro, pur così a me vicine di sangue!) negavano la mia nascita da Zeus: andavano dicendo che Semele, sedotta da un amore volgare, per discolparsi aveva millantato una violenza di Zeus, e che per questa menzogna il dio l’aveva colpita …” .

Più volte nel corso del dramma Dioniso rimprovera questa ostinata cecità alle proprie parenti mortali, finché alla fine la sua vendetta si abbatterà terribile su tutte loro.

Dopo essere stato svezzato, Dioniso fanciullo fu dato da Ermes in custodia alle ninfe del monte Nisa (il suo nome significa infatti “il dio di Nisa”). Qui, divenuto adolescente, scoperse le proprietà della vite ed escogitò il modo di ricavarne il vino; da allora girò per la Grecia, insegnando agli uomini la viticoltura, generoso con chi lo accoglieva, crudele con chi lo rifiutava. Il re di Tracia Licurgo ed il figlio di Agave, Penteo, sono solo i più celebri tra gli avversari del culto dionisiaco, sconfitti e spietatamente colpiti dalla vendetta del dio.

Dopo numerose avventure, con un vasto seguito di Baccanti, di Satiri e di Sileni, Dioniso passò in Asia, ove pure diffuse il suo culto e introdusse la civiltà greca. L’azione delle Baccanti euripidee si colloca subito dopo il ritorno del dio dal suo viaggio in Asia, ed il Coro della tragedia risulta costituito da quelle donne asiatiche che avevano voluto seguirlo ancora, fino a Tebe (non sembra tuttavia che il Coro sia mai consapevole della autentica divinità del proprio sacerdote e corifeo, o quanto meno tutto viene lasciato dall’autore in una velata incertezza … ).

Dioniso sposò Arianna, la figlia di Minosse, sedotta e abbandonata da Teseo, avendone a sua volta dei figli. Finalmente, con tutta la famiglia e con la madre Semele, fu accolto sull’Olimpo, tra gli Dei maggiori, unico delle divinità ctonie (quelle cioè legate alla sfera terrestre) a ricevere tale promozione, se si esclude Demetra, la dea delle messi, sorella di Zeus. In onore del dio del vino, carissimo al popolo, si celebravano feste chiassose e disordinate, dette “Dionisie” , caratterizzate dal sacrificio dei capri e allietate da processioni e canti corali detti ditirambi, dai quali molti studiosi fanno derivare la stessa rappresentazione tragica (tragodìa, “canto del capro” ).

Altri nomi di Dioniso furono Iacco o Bacco (“Strepitante”), Bromio (“Chiassoso”), Lieo (“Colui che libera”, ovvero “scioglie”), Bassareo (“Pampinoso”). Le Baccanti erano chiamate anche Bassaridi (e portavano la bàssara, lunga veste colorata e ornata di pampini), Eleleidi ed Eveidi (da elelèn ed evoè , grida rituali del dionisismo), Tiadi (“le frementi”), o infine Mènadi (“le furenti”, da manìa, follia). Il culto prevedeva anche momenti orgiastici nelle foreste o in montagna, come accade nella tragedia euripidea sul monte presso Tebe, il Citerone: allora le baccanti vestivano la nèbride, una pelle di cerbiatto, animale che veniva scuoiato vivo in onore di Dioniso e poi fatto a pezzi e divorato in un rito di selvaggia comunione (lo sparagmòs, “dilaniamento”).

Altro fondamentale attributo delle baccanti era il tirso, un bastone recante sulla punta una pigna, e ornato di edera o di pampini. Nel finale della tragedia la misera Agave, ancora folle, si presenta sulla scena con la testa mozzata di suo figlio Penteo infissa sul tirso (Episodio IV, Scena IV e segg. del nostro testo). Per volontà di Dioniso, è stato infatti Penteo, scambiato per un animale, la vittima dello sparagmòs.

Tra i personaggi della tragedia vi è anche l’indovino Tiresia, che induce Cadmo ad accogliere e a festeggiare il nuovo dio, Dioniso. Penteo però interviene ed impedisce ai due anziani di raggiungere le baccanti sulla montagna: il giovane re ha parole di scherno e di compatimento per il nonno, mentre per Tiresia emana una più severa condanna, incurante di ogni ammonizione. (cfr. Episodio I, Scene 1 e 2).

Tiresia era la più celebre figura di indovino del mondo mitico antico. Era stata la dea Atena ad accecarlo, perché da ragazzo, conducendo un gregge, l’aveva involontariamente sorpresa mentre si bagnava nuda nelle acque di una fonte. In compenso, dalla stessa dea aveva ricevuto la virtù profetica e il dono di una lunghissima vita. Nel libro XI della Odissea Ulisse scende agli inferi per interrogare proprio l’ombra di Tiresia sul suo futuro destino.

Per quanto riguarda il figlio maschio di Cadmo e Armonia (assente nella tragedia), il mito lo dice padre di Labdaco, che fu a sua volta padre di Laio. Questi sposò Giocasta e generò Edipo, il figlio che – secondo un antico oracolo – avrebbe ucciso il proprio padre e si sarebbe unito alla propria madre.

Inutilmente Laio ordinò di abbandonare il neonato sul Citerone: Edipo venne raccolto e condotto a Corinto, dove fu allevato come un figlio dal buon re Polibo. Divenuto adulto, volle fare luce sulle proprie origini e interrogò l’oracolo di Delfi, che lo indirizzò a Tebe. Lungo la strada per Tebe, ad un incrocio, venne a lite con Laio (che si stava dirigendo a Delfi, per chiedere consiglio su come combattere la mostruosa Sfinge) e, senza riconoscerlo, lo uccise. Giunto a Tebe, Edipo sconfisse la Sfinge, ricevendo in premio dal popolo il trono e la mano della vedova regina, sua madre Giocasta. Dalle nozze incestuose nacquero quattro figli: Eteocle e Polinice, Antigone ed Ismene. Più avanti, in occasione di una terribile pestilenza, Edipo interrogò il vecchissimo Tiresia e scoperse l’atroce verità: il racconto mitico più importante dice che si bucò gli occhi, dopo avere trovato Giocasta suicida nel talamo nuziale. I suoi figli si disputarono il trono a lungo, con due terribili guerre, e finirono con l’uccidersi a vicenda nell’ultima battaglia. Il mito di Edipo è stato argomento di poemi epici e soprattutto del teatro di Eschilo (Sette a Tebe) e di Sofocle (Edipo re, Antigone, Edipo a Colono). Euripide si dedicò al mito tebano nel dramma Le Fenicie, del 410-408.

LA GENEALOGIA TEBANA

POSEIDONE

I

Agenore

I

_________________

I                               I

Europa                       Cadmo  (sposa ARMONIA, figlia di ARES e AFRODITE)

I

___________________________________________________________

I                    I                        I                        I                                      I

Autònoe         Ino                     Semele               Agave                                      Polidoro

(da Aristeo)   (da Atamante)     (da ZEUS)           (da Echione)                         I

I                    I                        I                        I                                 Labdaco

Atteone      _______              DIONISO                Penteo                                  I

I            I                                                                             Laio

Learco   Melicerte                                                                         (da Giocasta)

I

Edipo

(da Giocasta)

I

______________________________

I                I                 I                 I

Etèocle     Polinice    Antigone    Ismene

IL CULTO E I MISTERI DI DIONISO

 

 

Dioniso, insieme con Demetra, era in Grecia il protagonista delle feste contadine. Ma se dalle campagne ci spostiamo nelle città il pantheon ellenico subisce un mutamento: Zeus stesso, che i contadini invocavano soprattutto quale dio dei fenomeni celesti, in ambiente urbano era visto come il protettore della casa e del patrimonio familiare. Ogni città aveva poi come patrona “ufficiale” una delle tante divinità olimpiche: Pallade Atena, la dea della sapienza, incarnava ad esempio i valori morali e civili della polis ateniese.

La religiosità popolare rimase invece piuttosto lontana dalla visione olimpica del divino. Tale tipo di fede aveva i suoi presupposti in credenze remotissime, di cui alcune risalenti anche a prima delle civiltà cretese e micenea. E’ la fede in un mondo di dèmoni, di spiriti e di fantasmi, che si riteneva vivessero accanto agli uomini ed il cui potere era considerato, il più delle volte, malefico. La dea più importante di questo oscuro universo fu Ecate, la quale si pensava girasse di notte per le strade con un corteo di ombre. Entriamo in una “atmosfera” religiosa assai diversa da quella omerica ed olimpica: qui gli Dei sono avvertiti essenzialmente come forze, che l’uomo ha interesse a farsi amiche.

La persistenza di tali elementi arcaici, di origine mediterranea, è una caratteristica comune dei misteri . Abbiamo notizia di culti misterici anche in Tracia, in Frigia, in Persia, in Egitto. Dovunque, l’oggetto del culto misterico è una qualche divinità legata alla vegetazione e all’agricoltura; agli iniziati di tale culto veniva garantita una più autentica felicità sulla terra e un’esistenza privilegiata nell’aldilà. La genesi di questo fenomeno è da ricercarsi in un caratteristico atteggiamento dello spirito umano di fronte al mistero della vita e della morte. In particolare, è proprio dei primitivi interpretare tutti i fenomeni della natura in connessione tra loro. Tale connessione viene senz’altro avvertita fra i mondi vegetale, animale ed umano: la fecondità dei campi è posta in rapporto stretto con quella del bestiame e quella dell’uomo; e spesso si pensa che una forza divina della vegetazione sia incorporata in un animale sacro. Tuttavia il mondo vegetale possiede una sua caratteristica specifica, simbolicamente fortissima: il suo periodico venire meno, per poi nuovamente risorgere. Si comprende il perché, di tutte queste divinità della terra (compreso Dioniso), il mito narri vicende di morte e resurrezione.

La terra, cui queste divinità sono legate, è poi il luogo che accoglie i corpi dei defunti; e vi sono miti che parlano della nascita di uomini dalla terra, mentre presso vari popoli è testimoniato anche il costume di deporre nella terra i neonati.

Tramite la terra, il vincolo tra il regno vegetale e quello umano si rafforza e con esso la speranza per l’uomo, qualora riesca ad incorporare in sé il nume in cui si identifica la forza vitale comune ai due regni, di partecipare della sua stessa rinascita o immortalità, oltre l’apparente stasi della morte. Per ottenere tale incorporazione, è necessario cibarsi delle carni dell’animale in cui si ritiene presente il dio, o comunque attuare azioni che portino alla simbolica unione col dio. I misteri sono sempre stati, pur nella loro varietà storica, una ripetizione di questo antico cerimoniale.

In Grecia, la religione “ufficiale” dello stato (con i suoi luminosi, ma lontani Dei olimpici) concedeva poco spazio alle aspirazioni escatologiche insite nell’animo umano, alle quali invece la religiosità misterica veniva incontro, promettendo un più intimo rapporto con il divino e promuovendo la fede nell’immortalità personale.

Accanto ai misteri di Demetra e di sua figlia Core (Persefone), celebrati a Eleusi (misteri eleusini), erano diffusi quelli di Dioniso.

Fra le divinità greche Dioniso è la più profonda e difficile da interpretare. Un tempo si pensava che fosse stato importato dalla Tracia; oggi si ritiene che sia un dio di origine mediterranea o addirittura cretese. Il suo nome compare sulle tavolette micenee ed è quindi molto più antico di Omero, che pure ne fa solo rari cenni nei suoi poemi. Si usa dire che Dioniso fu il “dio del vino”, ma questo è solo un aspetto della sua personalità, complessa ed ambigua.  Si può affermare intanto che, in epoca pregreca, Dioniso ebbe una importanza ben superiore a quella che conservò in età postomerica. Ne sono indizio i miti e i culti tramandati nei secoli, che lo raffigurano quale protagonista di riti orgiastici sfrenati, i cui partecipanti (in prevalenza donne) si spingevano fin quasi alla follia, divorando le carni crude e sanguinanti dell’animale sacro, per identificarsi col dio e sentirsi invasati da lui.

A Dioniso non mancò mai un aspetto ctonio, di cui rimase traccia nel fatto che durante le Antesterie (feste attiche primaverili in suo onore) il suo culto si intrecciava con la commemorazione dei morti. Siamo nell’ambito della religiosità arcaica e misteriosa, che avvertiva ed intendeva omaggiare le forze oscure presenti nella natura umana ai margini della coscienza, o relegate nell’inconscio, le quali possono bensì travolgere l’individuo annebbiandone la ragione, ma al tempo stesso gli danno la sensazione di partecipare ad una realtà più profonda e grande. Accanto alle esigenze dell’ordine e della ragione, simboleggiate dagli Dei olimpici, ci sono quelle del disordine e dell’istinto, incarnate da Dioniso: per cui si può dire che il culto di questo nume apriva la necessaria valvola allo sfogo di esigenze e di sensibilità che non si devono rimuovere.

Dioniso sembrava adatto a riassumere in sé le aspirazioni delle plebi greche, emarginate dalla vita della polis . Invano Esiodo (VIII-VII a. C.) le aveva esortate ad accettare il mondo così com’era; esse si sentivano guidate da Dioniso a scoprire una terza dimensione del mondo: accanto a questa vita (su cui regnavano Zeus, Apollo e gli altri Dei olimpici) ed accanto al suo contrario (il triste regno di Ades), si apriva una terza prospettiva: il regno di Dioniso. Per giungervi occorreva uscire da se stessi e abbandonarsi alle forze presenti nel segreto dell’uomo; così, partecipando alla natura medesima del dio liberatore, l’uomo avrebbe avuto in premio la liberazione dagli affanni e dalle ristrettezze della realtà quotidiana.

Quanto la religiosità misterica fosse in contrasto con quella olimpica è intuitivo: quest’ultima aveva sempre negato la possibilità di una unione con il dio, anzi aveva giudicato una colpa ogni tentativo di realizzarla. L’approccio misterico prospettava invece la partecipazione dell’uomo al divino, pur nella permanente eterogeneità dei due mondi.

Senza dubbio, in età postomerica, la religione olimpica cercò di assimilare anche Dioniso alle altre divinità o addirittura di degradarlo a rango di semidio o eroe. Tale tentativo non andò del tutto frustrato. Se infatti il dio conservò sempre una sua personalità indipendente (ed ottenne anche un riconoscimento ufficiale, quando Pisistrato, tiranno della città fra il 560 e il 528, decise di introdurlo dal contado in Atene, istituendo le “Grandi Dionisie”), Dioniso dovette adattarsi agli Dei della polis, smorzando i propri caratteri più primitivi e violenti ed accettando la misura e l’equilibrio del regno di Zeus. Allora incominciò a diventare soltanto il “dio del vino” e della piacevole ebbrezza: quello che ancora oggi tutti, superficialmente, conoscono. Ciò significa che, quando Euripide scrisse Le Baccanti (rappresentate dopo il 406), ripropose davvero all’attenzione gli aspetti misteriosi ed inquietanti dell’antico Dioniso.

Una ulteriore variante del suo culto si ebbe nei misteri orfici, così chiamati perché istituiti, secondo le leggende, dal poeta tracio Orfeo.

Le più antiche testimonianze sull’orfismo risalgono al VI secolo a. C. Si trattò forse di un movimento di “riforma”, iniziato in seno alla religione dionisiaca e volto ad orientare in senso ascetico e catartico quella fuga dal mondo che il dionisismo perseguiva attraverso l’esperienza orgiastica. Il richiamo alla figura di Orfeo indica che l’intenzione originaria di tale movimento era di conciliare il primitivo contenuto dionisiaco ( il mito di Dioniso Zagreo) con la forma apollinea (ovvero la chiarezza e l’ordine della poesia, con cui è possibile trasfigurare e sublimare anche il brutto). La dimensione poetica elevava i riti e le dottrine ad un livello più alto, suggerendo inoltre in modo migliore l’aspetto della eternità.

Per quanto riguarda il contenuto mitico, l’orfismo scelse una delle tante tradizioni connesse alla figura del dio, di radice cretese, e la reinterpretò nei seguenti termini:

il primo Dioniso, detto Zagreo, nasce con la testa taurina dall’unione di Zeus e di Persefone. Poiché è destinato a succedere al padre nel governo del cosmo, i Titani, sobillati da Era, fanno scempio di lui e ne divorano le membra, ad eccezione del cuore, che Zeus raccoglie ed ingoia per custodire in sé il seme dl figlio morto. Il nuovo Dioniso rinasce poi a Tebe, come figlio di Zeus e di Semele. Secondo questo mito, Zeus avrebbe poi fulminato i Titani per punirli del massacro del figlio: dalle loro ceneri nacquero gli uomini, nei quali è presente un principio immortale e positivo, derivato dal corpo del dio divorato, ed uno mortale e negativo, derivato dai corpi dei Titani. Nell’uomo si svolge dunque la lotta tra il bene e il male, la vita e la morte, l’infinito e il finito.

L’orfismo, attraverso pratiche purificatorie, anche alimentari (vegetarianesimo), si proponeva di eliminare dall’anima umana le scorie colpevoli, in modo che l’uomo potesse identificarsi totalmente con Dioniso, in vista di una resurrezione finale dell’uomo stesso, sulle orme del dio.

DIONISO E CRISTO

Solo con Nietzsche, il quale ha inteso proporre al mondo la figura di Dioniso quale “anticristo”, si dissolve per sempre quel “nesso strettissimo che molti Padri della Chiesa avevano stabilito tra il dio greco e Gesù”. (E. Zolla)  Il Cristianesimo infatti, anche se aveva condannato le pratiche più indecorose ed impure del dionisismo, reprimendole e allontanandole dal quadro della civiltà che esso intendeva costruire, ne aveva sostanzialmente custodito la sapienza più profonda, quella dello “spirito” …

L’incontro fra Dioniso e Gesù si manifesta anche a livello estetico. La Passione di Cristo è legata al brutto: il suo dolore consiste in un lacerarsi delle carni, inchiodate su una macchina lignea di tortura, la croce; la Redenzione non avviene certo nel segno del bello, cioè attraverso qualcosa che sia assimilabile alla statuaria greca. La Redenzione è una tragedia divina. Sono le tenebre, il mistero, il brutto (ovvero gli elementi dionisiaci fondamentali) che ci salvano, non ci salva il bello (l’apollineo puro).

Della grande portata, perturbante ma salvifica, del brutto erano forse coscienti i Padri del Cristianesimo e i medioevali; poi però è stato necessario attendere il XIX secolo per coglierne ancora l’antico senso e per rivalutare il “brutto” nell’arte. Ed è stato comunque il Cristianesimo a sublimare iconograficamente, nel corpo del Cristo, il concetto del brutto facendone lo strumento catartico della sconfitta del Male e della Resurrezione.

In questo “la teologia cristiana, teologia del corpo, è ancora esoterismo dionisiaco” (E. Zolla) o almeno lo ricorda notevolmente …

Anche fra tragedia e messa cristiana c’è affinità: la tragedia nasce dalla collaborazione fra Dioniso e Apollo, così come nel memoriale eucaristico si incontrano buio e luce, si passa attraverso la morte per attingere la vita.

 

EURIPIDE E LE BACCANTI

Tutta l’opera di Euripide fu dominata dalla compenetrazione e dallo scontro fra il pensiero razionale e la passionalità istintiva: e proprio alla fine della sua vita e della sua parabola di autore, quasi a simboleggiare tutte le tensioni che la sua opera aveva espresso, si colloca la tragedia Baccanti.

L’argomento è offerto da uno di quei miti sull’ostilità incontrata dal culto di Dioniso, in cui si rispecchia la difesa della ragione contro la manìa dionisiaca, ed anche il processo storico che dovette accompagnare l’accettazione del culto da parte delle poleis. Qui è il re tebano Penteo, nipote di Cadmo, ad opporsi ostinatamente al dio, offrendogli così la possibilità di uno straordinario quanto crudele trionfo: il giovane sovrano finisce infatti straziato dalle Menadi, la cui schiera è guidata da sua madre Agave e dalle di lei sorelle. Sappiamo che l’argomento era già stato trattato da Eschilo nel suo dramma Penteo, andato perduto.

Nessuna delle tragedie di Euripide fu oggetto di interpretazioni tanto contrastanti. Alcuni vollero vedervi una conversione religiosa del vecchio poeta, il cui scetticismo sarebbe alla fine stato vinto dal richiamo liberatore del dio.

Altri, in particolare gli studiosi positivisti di fine Ottocento, vi vedevano l’esatto contrario: non è possibile – essi dicevano – credere in un dio così irrazionale e violento; per cui Euripide avrebbe inteso fare di Penteo il simbolo e l’eroe della ragione, che lotta fino alla morte contro l’aberrante accecamento  del fanatismo.

Oggi si è rinunciato a queste interpretazioni troppo schematiche e radicali. Il dramma nasce certamente da una attenzione particolare di Euripide verso il fenomeno dionisiaco, ma ciò non comporta né una conversione né una protesta razionalistica. Molti degli ultimi drammi euripidei presentano un interesse accresciuto per il misticismo e l’esperienza dell’estasi: il che si concilia comunque con il rifiuto della religiosità esteriore ufficiale, quella detta “olimpica”. Si deve anche tener conto delle impressioni suscitate in Atene da certi culti orgiastici stranieri, penetrati in città durante la guerra del Peloponneso; e soprattutto della vivacità e freschezza che il culto stesso di Dioniso manteneva in Macedonia (dove Euripide, lasciata Atene, visse i suoi anni estremi e dove morì). Tutto questo indusse il poeta a studiare il fenomeno, mettendo in scena l’enigmatica ed affascinante polarità della religione, senza però dare al pubblico risposte definitive, ma piuttosto suscitando in esso, ancora una volta, riflessioni e domande profonde. Nella tragedia vi sono quadri di assoluta pace, che Dioniso offre all’uomo, come quando le donne del corteo bacchico si abbandonano ad un pacifico sopore nel mezzo del bosco ed offrono il seno ai cuccioli delle creature selvatiche, mentre purissime sorgenti scaturiscono dalla terra. Qui viene rappresentato il superamento di ogni contrapposizione fra il mondo umano e la natura. Ma le stesse donne rispondono poco dopo con furia terribile a chi disturba il loro incanto, devastano con violenza primordiale gli abitati della valle, facendo a brani le mandrie e compiendo prodigi di forza selvaggia (Episodio III, Scene 4-6 della nostra versione).

In questa polarità di pace e di esaltazione, di sorridente grazia e di distruzione demoniaca, Euripide vede il culto dionisiaco come simbolo della natura e della vita stessa.  L’ambiguità si incarna nell’indecifrabile sorriso e nella placida quiete del personaggio Dioniso, raffigurato dall’autore come un tenero adolescente (nella Scena 2 dell’Episodio II, Penteo deve riconoscere che quello “straniero” ha un suo fascino:

“ … fatti guardare: non sei brutto, no … chiome fluenti, guance rosate, pelle fresca e levigata … ti curi di mantenere la tua molle bellezza, per suscitare in altrui gli stimoli di Afrodite … “ ).

La spaventosa vendetta di questo giovane dio tocca il vertice nella scena finale, in cui Agave appare portando sul tirso la testa del figlio. Scrive Albin Lesky che tale scena “è il massimo dell’audacia a cui un drammaturgo greco sia mai arrivato. Il lento ridestarsi della donna dall’incoscienza della follia alla dolorosa coscienza della realtà è descritto con una straordinaria bravura psicologica e artistica. Nel punto in cui ha termine per noi la storia della tragedia greca, assistiamo incredibilmente al rinnovarsi del prodigio dionisiaco, da cui la tragedia stessa era nata”.

ALCUNI CONFRONTI

Le Baccanti, film di Giorgio Ferroni (Italia-Francia, 1960), con Alberto Lupo (Penteo).

Ricostruzione molto libera, con una trama tipicamente “hollywoodiana”: gli elementi più inquietanti, ma certamente i più significativi del dramma euripideo (ad esempio, l’uccisione di Penteo da parte delle baccanti, guidate dalla madre) vengono rimossi.

A Tebe, oppressa dalla siccità, regna tirannicamente l’usurpatore Penteo, che ha calpestato i diritti del più giovane cugino Lacdàmo, il vero erede di Cadmo. Questi ama la figlia di Tiresia, Manto, la quale sta per essere sacrificata agli dei come vittima espiatoria in cambio della fine della siccità stessa. Lacdàmo vorrebbe salvarla, ma viene imprigionato. Il sacrificio umano è impedito all’ultimo istante dall’intervento di uno straniero, che altri non è se non Dioniso. Il giovane dio, per poter ascendere all’Olimpo, deve prima conoscere l’amore e il dolore umani, e perciò, assunta la forma di un mortale, ha fatto visita alla città di sua madre Sèmele, ove lui stesso nacque. Dioniso fa scendere la pioggia, suscitando l’entusiasmo del popolo. Quindi invita tutti i giovani tebani sul Citerone, a festeggiare il nuovo dio di cui si dice un inviato. Durante la festa unisce in matrimonio Manto e Lacdàmo, che aveva precedentemente liberato dal carcere. Penteo con i suoi armati sale il Citerone, per porre fine ai disordini, ma viene sconfitto dalle Baccanti e ucciso in duello dall’antagonista Lacdàmo, che assume il potere. Dioniso lascia il mondo degli uomini, dopo avere rivelato la sua vera natura alla bella Dirce, già promessa sposa di Penteo, ma in realtà innamorata dello straniero: a Dirce non resta che essere sacerdotessa del culto dionisiaco, consacrata a un amore impossibile.

La sceneggiatura riecheggia solo qua e là il testo di Euripide: ad esempio, nel confronto fra Dioniso e Penteo, il cui dialogo serrato è uno dei momenti artisticamente migliori del film.

Le Baccanti, regia di Giancarlo Sbragia (Siracusa, 1980), con Michele Placido (Dioniso) e Anna Maria Guarnieri (Agave).

E’ una regia dai toni piuttosto forzati, nel tentativo di accostare la tragedia euripidea al genere del dramma satiresco. Il trucco ed i costumi appaiono grotteschi, discutibili, in particolare per il coro delle baccanti: lunghe chiome rossastre, su cui sono intrecciati nastri serpentiformi, viso ricoperto da spesso cerone bianco, occhi e labbra violacei. Le coreute ora si agitano, con gesti animaleschi o come da spiriti degli inferi, ora invece si assopiscono; ora emergono dalla vasta e profonda buca circolare che occupa tutta la scena e si lanciano ad inseguire qualcuno, ora fuggono spaventate emettendo strida scimmiesche … l’armonia di gruppo rivela comunque una buona professionalità.

Il testo è fedele ad Euripide, tranne che per il racconto del secondo messaggero, qui abolito. Non felice la rappresentazione della figura di Tiresia e la comparsa in scena di Agave. Troppo urlato Dioniso.

Le Baccanti, regia di Tonino Conte (Genova, 2000), a cura del Teatro della Tosse.

La regia è di tipo “povero” e futuristico insieme, con personaggi in abiti qualsiasi della contemporaneità, carrozzelle per disabili, biciclette, tavolini e sgabelli in scena. Sullo sfondo, tre grandi scalinate, su cui siedono o si adagiano gli attori. Non mancano falli di legno tra le mani dei personaggi e lunghi nasi posticci, questi ultimi per le donne del coro.  Ma l’aspetto più importante è lo scambio dei sessi: la regia insiste sul tema dell’ambiguità maschio-femmina, imponendo un Dioniso donna (una bionda e bella ragazza, che per un po’ sta sulla scena anche a torso nudo). Cadmo è una signora anziana, quasi poveramente vestita, mentre Agave viene interpretata, con voce e gesti assai dolci e misurati, da un uomo in abito femminile. Colore prevalente è il rosso, ma le guardie e i messaggeri sono in giacca e pantaloni neri. Il testo presenta pochi ritocchi. Il dramma finisce con tutti i personaggi, tranne ovviamente Penteo, che si stringono a Dioniso, in piedi nel mezzo della scena, come in uno sterile ed impossibile abbraccio …

Baccanti, regia di Luca Ronconi (Siracusa, 2002), con Massimo Popolizio (Dioniso), Giovanni Crippa (Penteo), Warner Bentivegna (Cadmo), Galatea Ranzi (Agave).

La messa in scena presenta, quale coro delle baccanti, un folto gruppo di donne in avanzato stato di gravidanza (è il seme sparso in loro da Dioniso … ): si muovono piuttosto lente e impacciate, in abiti lunghi e scuri, richiamando l’immagine stereotipa delle popolane di Sicilia. Ai margini dell’orchestra si aggirano invece uomini vestiti più elegantemente, con cappotti e cappelli grigi o neri, segnalando al pubblico la tradizionale superiorità, vagamente mafiosa, che il maschio del sud vanta sulla femmina. Una superiorità che Dioniso si occuperà di demolire. Si tratta dunque di una regia impegnata sul fronte sociale e politico. Il testo euripideo viene peraltro rispettato e i personaggi appaiono convincenti, con l’eccezione di Dioniso, ora troppo arrabbiato e urlante ora ambiguo e svenevole fino all’eccesso.

La caccia, da Baccanti di Euripide

di e con Luigi Lo Cascio (TEATRO FRASCHINI PER LE SCUOLE, 25 marzo 2010)

Sappiamo che nella tragedia originale, Euripide mette in scena lo scontro fra un uomo, Penteo, tiranno di Tebe, e un dio, Dioniso, che lamenta il fatto di non essere stato riconosciuto e venerato proprio nella sua città d’origine. Il conflitto coinvolge tutta la comunità ed il corpo sociale ne è sconvolto. Alla fine Dioniso si vendicherà in maniera smisurata. La sconfitta dei suoi avversari si configura quale morte, esilio, distruzione: sembra che non rimanga più nulla sulla scena se non deserto e macerie. Cadmo, fondatore di Tebe, nonno sia di Penteo sia di Dioniso, rivolgendosi al dio dirà: “ … riconosciamo di averti ignorato , ma tu hai ecceduto nella punizione …”.

In che cosa consiste questo eccesso? Lo spettacolo è lo svolgimento di questo interrogativo. L’indagine viene portata avanti da Penteo, rimasto solo sulla scena e visitato da fantasmi, ora solitari, ora raccolti nel coro delle sue allucinazioni. Penteo, che vorrebbe identificarsi con la sua maschilità di tiranno e cacciatore, è in realtà animato da una forte contraddizione: da un lato respinge Dioniso, ma dall’altro ne subisce il fascino. Comincia per lui una notte di tormenti e di visioni rivelatrici, che lo conducono inesorabilmente ad affrontare il dio nel corpo a corpo definitivo. Da cacciatore, Penteo sarà ridotto a preda, ed in questa sua nuova condizione, transitando dalla reggia e passando all’inedito ruolo di vittima, andrà incontro ad un terribile destino di frammentazione …

Vale la pena di riportare il giudizio sullo spettacolo di Giulia Maria Brega: “Sconvolta. Penso che questa sia la parola più giusta per dire come lo spettacolo mi ha lasciata. E penso anche di avere individuato la causa di tale sconvolgimento: la morte della ragione. Perché quel bambino (il piccolo attore Pietro Rosa, nei panni di un professore di greco) non era soltanto la rappresentazione di una interpretazione filologica logora della tragedia, ma anche l’incarnazione della ragione, la quale si ostina a dare una e una sola spiegazione, razionale appunto e sempre ovvia, dei fenomeni della vita. Quel bambino assalito e probabilmente fatto a pezzi dagli uccelli rapaci rappresenta la morte della ragione: ed è questa a fare paura, in quanto è l’esito della follia di Penteo, che invece ha mille sfaccettature, che ci rivela un mondo soprannaturale sorprendentemente vicino ed un alter ego amante di questo soprannaturale … una cosa che sta in ognuno di noi, ma che ci ostiniamo a non ascoltare.

Un senso di angoscia ci è trasmesso da Penteo, che si agita frenetico senza trovare sbocchi, come una belva in trappola; e mentre all’inizio cerca di contrastare la sua stessa follia, quanto più si addentra nel mondo di Dioniso (per spiare le baccanti, poi per emularle, infine per scoprirsi femminile …) tanto più si abbandona ad essa. Ad accompagnare l’ascesa alla follia sono i pochi, ma efficaci elementi scenici: le immagini proiettate sullo sfondo, le alternanze luce – buio, lui che si arrampica sull’albero, e poi lo smembramento, non tanto fisico quanto piuttosto psichico …

Singolare infatti è l’interpretazione data al tema dello scontro. Non si tratta di quello fra il re e il dio, ma fra Penteo e la sua parte dionisiaca: Penteo scopre che il nemico straniero è dentro di sé, lo scontro si interiorizza e Dioniso (che appunto non compare in scena) si rivela essere null’altro che un’ossessione della mente di Penteo”.

Mentre in Euripide Penteo supplica la madre di riconoscerlo perché non vuole essere ucciso, qui dice: “Mamma, non guardarmi, perché mi vergogno” …

Il re e il dio, a cura del Laboratorio Teatrale del Liceo Scientifico di Broni.

Si punta ad una realizzazione di tipo tradizionale, ma molto seria e composta, sobriamente solenne e comunque impegnata, in linea con la scelta del tema fondamentale, politico e religioso. Viene rifiutata qualsiasi invenzione stravagante come una forzatura inutile e fuori luogo. E’ vero che anche il nostro Dioniso è donna, ma non c’è alcuna insistenza su tale scelta, che si impone solo con la sua evidenza. Gli studenti attori, dopo avere visto tutte queste realizzazioni della tragedia, hanno candidamente ed orgogliosamente affermato che saranno in grado … di fare meglio!

BIBLIOGRAFIA (per chi vuole leggersi qualche libro)

Sul mito :

Dizionario Universale di Mitologia, a cura di G. Sechi Mestica, Rusconi, Milano 1990 e segg.

Dizionario dei miti greci e romani, a cura di G. L. Bruschi, Il Capitello, Torino, 1994 e segg.

  1. L. Tordini, Dentro il mito, Paravia, Torino, 1997

Sul dionisiaco e sulle Baccanti di Euripide :

Enciclopedia Garzanti della Filosofia, 1981 e segg.   (voci: Nietzsche, misteri, mito, orfismo)

  1. Zolla, Il dio dell’ebbrezza: antologia dei moderni dionisiaci, Einaudi, Torino, 1998
  2. Beltrametti, Studi e materiali per le Baccanti di Euripide, Ibis, Como – Pavia 2007
  3. Ferraro, Il ritorno di Dioniso. Le Baccanti e il dionisiaco nella cultura e nell’arte moderna. Editrice Esselibri – Simone Scuola, Napoli, 2009 (Tomo II, annesso a Euripide, Le Baccanti, a cura di R. Casolaro, cfr. sotto)

Su Euripide e il teatro greco :

  1. Lesky, Storia della Letteratura Greca (traduzione di Fausto Codino), Il Saggiatore, Milano 1960
  2. C. Baldry, I Greci a teatro (traduzione di H. e M. Belmore), Laterza, Bari, 1972

Enciclopedia Garzanti della Letteratura, 1985 e segg. (voci: Euripide, tragedia)

  1. Adriani, Storia del Teatro Antico, Carocci Editore, Roma, 2005

Per il testo originale del dramma :

Euripide, Tutte le tragedie (a cura di F. M. Pontani), Newton Compton, Roma 1977 e segg.

Euripide, Le Baccanti, testo greco. Commento e traduzione a cura di R. Casolaro. Editrice Esselibri – Simone Scuola, Napoli, 2009 (Tomo I, annesso a G. Ferraro, Il ritorno di Dioniso, cfr. sopra)