AULIDE. ULTIMI AGGIORNAMENTI SUL CASO IFIGENIA

IFIGENIA, EURIPIDE, GLI ALTRI E NOI

PRIMA DI EURIPIDE

La figura di Ifigenia, secondo alcuni ignota ad Omero (ma nell’Iliade, IX, 145, Agamennone si dice disposto a concedere ad Achille sdegnato la mano di sua figlia Ifianassa…), viene citata in un frammento del poema ciclico Canti Cipri e si delinea a nitidi contorni, nei tragici greci, specie in Euripide, che incentra su di lei due drammi: Ifigenia in Aulide (406 c.) e il precedente Ifigenia fra i Tauri (412). Non ci è chiaro come quella che in antichità era una dea delle nascite e della fecondità, assimilata ad Artemide, sia divenuta poi una delle figlie di Agamennone, erede con la sorella Elettra e il fratello Oreste del triste lascito familiare di vendette e orrori della casa di Pèlope. Vari autori trasmettono il mito di Ifigenia in una formula sempre rivisitata, seguendo gli scarti di una mentalità che si evolve secondo le esigenze in rinnovamento delle concezioni di vita. In particolare, come la maggior parte delle tradizioni mitiche, anche il sacrificio di Ifigenia divenne oggetto di rielaborazione e di rappresentazione tragica nel teatro del V secolo.

Eschilo (525-455 a. C.), il più arcaico e religioso fra i tre grandi autori ateniesi, ricorda più volte l’episodio nella sua trilogia sugli Atridi, la già citata Orestea. Nel primo dramma (Agamennone), viene rievocata la vendetta di Clitennestra, che uccide l’odiato sposo, appena ritornato da Troia, nel nome della figlia perduta. Il Coro di anziani argivi rievoca mirabimente, nella pàrodo, il sacrificio maledetto:

“…Zeus aperse ai mortali

le vie della Saggezza,

insegnando che sapere è soffrire…

ed allora il maggiore dei capi

non biasimò l’indovino

e secondò egli stesso la sorte

che lo colpiva.

Con le vele richiuse,

le provvigioni che perivano,

gli Achei perdevano vigore,

fermi di fronte a Calcide,

sulla spiaggia di Aulide

rumoreggiante di flutti.

Ed i venti dello Strìmone,

i venti dell’ozio funesto, i venti della fame,

i venti nemici dell’approdo,

dispersione di uomini errabondi, distruzione di navi,

prolungando senza fine l’attesa,

corrodevano il fiore degli eroi.

E quando l’indovino,

svelata l’ira di Artemide,

nuovo rimedio propose,

anche più amaro dell’amara tempesta,

percossero gli Atridi con lo scettro la terra,

non frenarono il pianto.

E il più grande dei re parlò così:

«Mala sorte è la mia,

se obbedienza rifiuto,

mala sorte, se la figlia sacrifico,

splendore della mia casa,

e qui sull’altare,

nei fiotti del sangue

della vergine sgozzata,

contamino le mani mie paterne.

Quale delle sorti

è la peggiore?

Ma come posso disertare la flotta,

tradire l’alleanza?

E dunque plachi il sacrificio i venti,

sgorghi della vergine il sangue!

Questo, con ira e con furore,

mi è forza volere. E così sia!»

Ed immerse il suo collo nel collare

della Necessità.

Spirando dal cuore mutato

sacrilegio, empietà, profanazione,

fu pronto a tutto osare.

I mortali incoraggia,

con suoi turpi consigli,

l’Insania, fontana di mali.

Così sofferse il padre

di farsi immolatore

della figlia,

aiuto per la guerra

punitrice del ratto d’una femmina,

lustrazione alle navi

impotenti a salpare.

Non valsero le preghiere

della vergine,

né che il padre chiamasse ella per nome,

né l’età senza macchia,

a piegare i capi

bramosi di guerra.

Ai ministri del rito, dopo i voti agli Dèi,

diede l’ordine il padre.

Ella era prona,

con il volto alla terra,

caduta sulle sue vesti.

La prendessero, come capra selvatica!

La sollevassero sopra l’altare,

con cuore duro!

La bella bocca, prora del bel volto,

(che non gridasse maledizioni alla sua casa!)

egli la volle

come ancorata, chiusa,

con la violenza del bavaglio, muta.

Le scivolarono ai piedi

le vesti, colore di croco.

E dagli occhi, pietosi,

con dardi di pietà,

feriva i suoi sgozzatori.

Pareva una immagine dipinta,

e voleva parlare!

Ella che tante volte,

nelle stanze del padre, o nei conviti,

aveva fatto udire il proprio canto,

e tante volte,

con purissima voce verginale,

amorosamente, in onore al caro padre,

aveva intonato il peàna

del buon augurio…”

Nel dramma successivo (le Coéfore), è rappresentato il ritorno di Oreste, fedele ai comandi di Apollo, nella città di Argo e l’incontro del giovane con la sorella Elettra presso la tomba di Agamennone. Poco dopo, in quello stesso luogo, Oreste sorprende Clitennestra e la uccide, ma immediatamente cade vittima delle Erinni, sorte dal sangue della madre. Solo nel terzo ed ultimo dramma (le Euménidi), avviene la ricomposizione, per iniziativa di Apollo e di Atena. Le due divinità olimpiche conducono Oreste davanti al tribunale di Atene: il giovane è infine assolto, ma nel medesimo tempo vengono riconosciuti i diritti materni ed istituito il culto delle Euménidi, le antiche Erinni, ormai placate e benefiche nell’ambito nuovo della polis.

Nella Elettra di Sofocle (496-406) ritorna la vicenda trattata da Eschilo nelle Coéfore, ma con la tendenza a portare l’azione a livello umano, rendendo marginale il ruolo del dio Apollo e, di conseguenza, delineando personaggi moralmente più autonomi. Tra questi campeggia la figura della protagonista, che prende maggior rilievo grazie anche al contrasto con la sorella Crisòtemi, incline a piegarsi di fronte ai fatti accaduti. Elettra invece, implacabile, convince il fratello (indeciso e tormentato dal dubbio) a colpire la madre.


EURIPIDE (485-388) … e noi

La figura di Ifigenia viene definitivamente consacrata nelle tragedie di Euripide.

La vita e l’attività di questo autore coincidono con il pieno manifestarsi del cosiddetto “illuminismo greco”. Il movimento dei Sofisti e la predicazione alternativa di Socrate avevano ormai spostato l’attenzione della filosofia dai problemi di carattere universalistico (la Natura e la sua arché) all’analisi del mondo umano.

In particolare i Sofisti, per questo accusati sovente di sacrilegio, andavano insegnando il relativismo della conoscenza e dei valori, nonché il potere della dialettica, messa al servizio del successo politico. Socrate sarà invece impegnato a dimostrare che la Verità è solo una, e coincide con il Bene. I conflitti e le incertezze intellettuali dell’epoca si riflettono, e si trovano rappresentati, nel mondo euripideo, tanto da rendere molto difficile stabilire i contorni ideologici di questo autore, suggestivo e sfuggente quasi come “un’erma bifronte”.

Figlio di un proprietario terriero, Euripide era stato da giovane un adepto del culto di Apollo. Ricevette un’educazione raffinata e pare fosse tra i primi a possedere una ricca biblioteca. Si sa che volle farsi discepolo del filosofo Anassàgora; e che poi fu amico di Pròdico, di Protàgora e di altri sofisti; ma che apprezzò anche la figura e il pensiero di Socrate. Si sposò ed ebbe tre figli. Acuto osservatore dei fatti, come già detto, non si occupò mai, direttamente, di politica. Si narra anzi che componesse i suoi drammi in una grotta di fronte al mare: simbolo del progressivo isolamento dell’artista dalla comunità cittadina, che aveva nutrito la poesia di Eschilo e di Sofocle. Le sue opere incontravano comunque il favore del pubblico, ma vinsero solo poche volte il primo premio nei vari concorsi teatrali di Atene, forse perché anticonformiste e venate di evidente scetticismo nei confronti della religione tradizionale. Uno dei suoi avversari più irriducibili fu Aristòfane (ideologicamente, un conservatore), che si burlò di lui in molte commedie. Già vecchio, Euripide accettò l’invito del re Archelao di Macedonia, che lo voleva alla sua corte, a Pella, dove morì. Venne allora commemorato in patria dal vecchissimo Sofocle, durante le Grandi Dionisie del 406.

Dei suoi 88 drammi rimangono 18 tragedie e un dramma satiresco (Il Ciclope). Nella sua produzione è possibile distinguere tre momenti principali. In un primo tempo prevale la tematica amorosa ed il conflitto tragico appare provocato dalle forze elementari e irrazionali della natura umana, istinti e passioni: nascono così grandi figure isolate, per lo più femminili, come Alcesti, Medea, Andromaca, o infine la Fedra protagonista del dramma Ippolito. In un secondo momento emerge l’interesse per gli aspetti politici: per la patria ateniese (Eraclidi, Supplici), per la coralità del dolore nel bellissimo dramma collettivo Le troiane. Infine abbiamo i cosiddetti drammi della tyche (il Caso), quali Elena, Ifigenia in Tauride, Ione. In essi, al di là dell’intrigo (volto spesso al lieto fine, grazie all’espediente del “deus ex machina”), resta l’amarezza di vedere i destini umani in balia del gioco cieco degli eventi, senza alcuna Provvidenza.

Stanno a sé i due ultimi capolavori di Euripide: le misteriose Baccanti e la Ifigenia in Aulide, che sappiamo rappresentate postume in Atene a cura di un figlio, anch’esso autore tragico.

In questo dramma, l’interesse per gli sviluppi della psicologia tocca il suo punto più alto. Già l’inizio presenta qualcosa di insolito per il teatro greco: il prologo, vivacissimo, tutto determinato da motivazioni psicologiche profonde, è qui costituito dal dialogo tra Agamennone ed un servo fidato. Il sovrano confessa di avere chiamato al campo di Aulide Clitennestra ed Ifigenia, con il pretesto di dare la fanciulla in sposa ad Achille, ma in realtà per sacrificarla ad Artemide ed ottenere così il vento propizio alla partenza della flotta per Troia. Ora però non si sente capace di compiere l’atto spaventoso e manda il vecchio servo incontro a Clitennestra, con una seconda lettera, che annulla le disposizioni della prima.

Nel primo episodio, irrompe sulla scena Menelao, che ha sorpreso il vecchio servitore, e non risparmia rimproveri al fratello esitante. Dopo il violento contrasto fra i due, si annuncia l’arrivo di Clitennestra: assistendo alla dolorosa disperazione di Agamennone, anche Menelao muta sentimenti. Egli porge la mano al fratello e manifesta la sua intenzione di rinunciare al sacrificio. Ma le parti si invertono: Agamennone, vergognandosi per l’eventuale suo disonore, dichiara che è ormai impossibile arrestare il corso degli eventi.

Nel secondo episodio, il saluto della moglie e della figlia (una Clitennestra ancora fedele ed un’Ifigenia adolescente e tenerissima) suscita in Agamennone nuovi ed angosciosi tormenti. Le donne non sospettano nulla, ma ecco che, nel terzo episodio, Clitennestra incontra casualmente l’ignaro Achille e lo saluta, con gioia, come futuro suo genero. L’equivoco viene chiarito di lì a poco dall’intervento del vecchio servitore, che rivela quale sia la verità. Anche Ifigenia viene a sapere e, come sua madre, si ribella con forza al destino.

Nel quarto episodio, Clitennestra assale il marito con aspre parole di rimprovero, e di odio; Ifigenia invece, ispirata dal naturale attaccamento alla vita proprio dei giovani, implora dal caro padre la salvezza con le espressioni più toccanti. Il suo lungo discorso finisce con una sentenza che rinnega uno dei massimi principi dell’etica aristocratica greca: “Meglio vivere nella vergogna che morire onorati” (v. 1252).

Ma non è la sua ultima parola. Nel quinto episodio, la risposta di Agamennone indica che la progettata spedizione è ormai da vedere sotto una luce diversa: mentre prima era, essenzialmente, una vendetta privata, riguardante la famiglia degli Atridi, per il rapimento di una donna, ora si configura quale impresa nazionale ellenica, atto etico e decisivo di una lotta contro il dispotismo asiatico. Anche Ifigenia coglie l’importanza dell’impresa, che dipende dal suo sacrificio.

Emerge intanto la figura di Achille, che già si era schierato dalla parte delle donne. Egli non tollera che si giochi col suo nome e – afferma – proteggerà Ifigenia contro chiunque. Ma quando vuole mantenere la promessa ed impedire il sacrificio, l’esercito, sobillato da Ulisse (qui considerato come “il figlio di Sìsifo”), gli si rivolta contro. Sembra che il giovane e cavalleresco eroe debba sacrificare la propria vita alla parola data. Interviene allora Ifigenia. E’ una Ifigenia diversa, che non supplica più di avere salva la vita, anzi respinge i rimproveri che la madre rivolge ad Agamennone e respinge la stessa dedizione dimostrata da Achille. Ora conosce la sua strada e vuole andare avanti per assicurare la vittoria alle armi della Grecia. Dopo aver consolato la madre, innalzando un canto ad Artemide, si avvia alla morte:

“Non voglio che si versino più lacrime.

O fanciulle, sul mio destino,

levate ora un peàna per Artemide,

per la figlia di Zeus.

E tutti i Greci

restino muti.

Qualcuno porti il canestro delle offerte,

bruci la fiamma dei sacri libàmi,

compia mio padre il giro dell’altare,

movendo dalla destra:

a tutti i Greci

io la salvezza arreco, io la vittoria”.

La parte finale del testo è pervenuta in condizioni confuse. Secondo alcuni filologi, un primo epilogo, in cui Artemide in persona appariva ex machina ad annunciare di aver salvato Ifigenia, sostituendola con una cerva e facendola sua sacerdotessa, venne sostituita (forse non da Euripide) dal racconto informativo di un messaggero alla incredula Clitennestra.

Pregevoli sono anche i corali.

Nel corso del dramma il coro, formato da donne di Càlcide, canta brani di ampiezza insolita in Euripide: il primo, nella pàrodo, è un’epica rassegna delle navi e degli eroi venuti in Aulide, cosa che contribuisce a creare il senso della necessità cui Agamennone non può sfuggire; il secondo brano, corrispondente al primo stàsimo, ricorda il giudizio di Paride ed il ratto di Elena; il secondo stàsimo presenta una visione della guerra e della distruzione di Troia, dove non manca un cenno pietoso alle donne, quali vittime innocenti della violenza; il terzo stàsimo rievoca con efficacia le nozze di Teti e Peleo, per poi innalzare il compianto per Ifigenia e per il fatto che

“ciò che trionfa, ormai,

è la sola Empietà,

negletta è la Virtù,

la Licenza calpesta oggi ogni legge,

ed ogni lotta non serve

a stornare l’invidia dei Numi”.

Il quarto stàsimo è sostituito da un canto di Ifigenia, che lamenta il proprio destino. Non vi è l’esodo del coro: esso resta in scena ad ascoltare un secondo entusiastico canto della protagonista, che ora si dice disposta al sacrificio, suscitando l’ammirazione delle donne di Càlcide. Queste infine, dopo avere assistito all’arrivo del messaggero finale e all’incredula reazione di Clitennestra di fronte al racconto del miracolo salvifico, salutano Agamennone che parte per la guerra, con parole di vano augurio:

“Che tu giunga, o Atride,

felice laggiù nella Frigia,

e felice sia il tuo ritorno,

con le splendide spoglie di Troia!”

Il tema del sacrificio volontario non era nuovo nel teatro dello stesso Euripide (vedi Alcesti, o Eracle); ma qui, oltre a costituire il motivo centrale del dramma, esso è legato al tema del mutamento psicologico, che si compie nell’animo di una giovane figura femminile. Tale mutamento è rappresentato, non seguito in tutte le sue fasi: abbiamo il punto di partenza e quello di arrivo di una evoluzione interiore. Ma pur con ogni limite, l’Ifigenia in Aulide significa un grande passo in avanti, verso il dramma moderno. La mentalità e la cultura dell’uomo greco, quindi anche dello spettatore di una tragedia, esigevano la costanza della natura (physis). Aristotele, nella Poetica (XV, 1454, a), biasima Euripide in quanto l’Ifigenia atterrita dalla morte e quella dell’eroico sacrificio non costituiscono una figura unitaria accettabile. Commenta invece il grecista tedesco A. Lesky: “Noi possiamo osservare come questo giudizio di Aristotele sia caratteristico del pensiero greco, ma non lo possiamo fare nostro”.

In conclusione, nell’Ifigenia in Aulide, la protagonista appare coinvolta nell’incostanza della sua età giovanile, vittima ignara del decreto degli Dèi. Il suo destino suscita reazioni contraddittorie nell’animo dei suoi cari.

Agamennone in un primo momento farà sue le ragioni del cuore, ma infine cederà a quelle di stato e sacrificherà la figlia, che, dapprima ribelle, sarà poi giovanilmente entusiasta di immolarsi per una giusta causa. Achille in principio si oppone con la forza al fato della sua promessa sposa, ma poi cederà di fronte alla risolutezza dell’esercito greco. La novità della versione fa sì che il sacerdote colpisca la vittima con il suo coltello sacrificale, ma scoprendo ben presto che la vittima altri non è che un cervo, in quanto Artemide non ha voluto che sangue nobile bagnasse l’ara sacrificale.

Nel testo intitolato Aulide. Ultimi aggiornamenti sul caso Ifigenia, la struttura interna risulta assai mutata, in funzione di un certo ampliamento e soprattutto di un “ammodernamento” considerati necessari per le nostre esigenze. Ciò è stato fatto badando a non compromettere la coerenza poetica e l’impronta originale euripidea.

Il prologo, con Agamennone ed il vecchio servo, è stato spostato al secondo episodio. Al suo posto, si trova una sorta di analisi introduttiva fatta al pubblico dallo Studente/Narratore, seguita, come primo episodio, da una riunione dei capi, nella quale viene deciso di procedere al sacrificio. Un successivo brano euripideo è quello dell’incontro fra Agamennone e la sua famiglia, appena giunta al campo: Clitennestra, Ifigenia, Oreste, con l’ancella (e baby-sitter) Anattoride. Questa scena, che nel dramma di Euripide si colloca al secondo episodio, viene qui a formare le scene 2 e 3 dell’episodio terzo; verso la fine del quale (scena 6) è stato posto anche l’incontro fra Achille e la regina micenea. Nel quarto episodio di entrambi i testi, troviamo il furioso discorso di Clitennestra al marito e la commovente, disperata, supplica di Ifigenia al padre. Dopo di ciò, il nostro rifacimento ritorna alquanto libero e presenta una struttura conclusiva piuttosto diversa. Il quinto episodio vede infatti Ifigenia entrare, inaspettatamente, nella tenda di Ulisse, dove è in corso una nuova riunione dei leaders principali dell’alleanza, e qui dichiarare la propria intenzione di sacrificarsi: cosa che suscita stupore ed ammirazione e per poco non determina uno scontro armato fra Achille ed Ulisse. Seguono due epiloghi: nel primo c’è il racconto del rito e della sua misteriosa conclusione, che Anattoride (e non un messaggero qualunque) riferisce alla disperata e inconsolabile sua regina; nel secondo vi sono le “interviste impossibili” ai tre personaggi principali del dramma (Agamennone, Clitennestra e Ifigenia) e la invocazione finale alla pace, affidata alla voce infantile del piccolo Oreste, che parla solo in quel momento, ormai al di fuori della vicenda scenica, pronunciando l’ultima parola, forse l’unica davvero catartica, per gli antichi come per noi: la parola pace.

Anche le parti più vicine al testo originale hanno comunque subito modificazioni, soprattutto a livello linguistico, ma talvolta anche nel contenuto. Nel quarto episodio, ad esempio, in occasione dell’aspro discorso di Clitennestra ad Agamennone, sono state tolte le parole che ricordavano le prime nozze della donna con Tàntalo e la sua prima conseguente maternità: sarebbe stato fuori luogo evocare un Agamennone violento uccisore, non solo di un eroe antagonista, ma anche del figlio di costui e di Clitennestra, per quanto nell’ottica di un costume primitivo che gliene assicurava il diritto. Si è preferito pensare a Clitennestra come prima sposa del re miceneo, secondo quanto sembra tramandare Omero, che fa dire ad Agamennone (la versione è del Monti, Iliade, I, vv. 150-151):

“…Clitennestra…da me condutta

vergine sposa…”

Nello stesso episodio, è stata tolta la sentenza finale (“Meglio vivere nella vergogna che morire onorati”) della preghiera di Ifigenia, tutta assai semplificata: una sentenza storicamente clamorosa, come si è già osservato, ma non del tutto coerente con il nostro rifacimento, dove Ifigenia deve parlare un linguaggio ancora più naturale ed universale.

Per quanto riguarda i personaggi, ne sono stati introdotti molti, nuovi e nuovissimi. Oltre allo Studente/Narratore, vi sono i due Lettori, incaricati di fare una sorta di “telegiornale” della vicenda, comunicando ad ogni inizio di episodio quali notizie sono state date dall’informazione ufficiale, quali voci trapelano dal campo oppure corrono tra la gente di Aulide. Tutto o quasi è top secret, e la storia risulta manipolata dagli uomini al potere: ma, per fortuna, lo spettatore può rendersene conto, semplicemente assistendo alla rappresentazione, che viene così a perdere il titolo di “finzione scenica” per acquisire, a buon diritto, quello di “verità”.

Sono presenti, accanto ai personaggi previsti da Euripide, altri famosi nomi del mondo omerico: l’indovino Calcante, l’anziano e saggio Nestore, l’astuto Ulisse: quest’ultimo è figura di grande rilevanza, dovendo incarnare il cinismo della Realpolitik, nonché del proprio particulare. Non può mancare il fratello minore di Agamennone, Menelao, lo sposo disonorato da Paride, benché con una psicologia parzialmente diversa, tale da renderlo meno limpido e meno positivo rispetto all’originale. Agiscono inoltre due ruoli significativi il servo di Agamennone, che qui ha ricevuto il nome di Filodèmo (“L’amico del popolo”, ma la parola richiama piuttosto l’idea dell’umile fedeltà) e la giovane Anattoride, ancella di Clitennestra, anch’essa molto umana e dignitosa nello svolgimento del suo compito servile.

Nel nostro terzo episodio (scena 4) compaiono poi un Mercante (Pankèrdos), un Poeta d’occasione (Kerdèidos) ed una prostituta (Pasifile), venuti a proporre concreti affari ad un Agamennone che, tutto sommato, sembra invece rimasto, un po’ come Achille, nei limiti di una concezione cavalleresca della guerra, qual era per gli antichi: dimostrazione pura di areté (valore). Ifigenia stessa percepisce la suggestione di questo nostalgico idealismo, in chiave patriottica. Intanto, i tre personaggi trovano il socio adatto in Ulisse, re della piccola Itaca, ma anche imprenditore abilissimo delle proprie fortune.

Un’ultima figura introdotta nel dramma (quinto episodio, scena 1) è la spia troiana Dolone, che, sorpreso da Menelao, ha con questi un breve ed ironico dialogo, utile per mostrare al pubblico altri retroscena possibili di siffatta vicenda. Dolone è protagonista nel canto X dell’Iliade (la cosiddetta Dolonìa), che si ritiene essere un’interpolazione posteriore nel corpus omerico originario: Ulisse e Diomede compiono una incursione notturna al di là delle linee nemiche e si imbattono nel troiano, che stava facendo la stessa cosa per ordine di Ettore. Ulisse gli promette la vita in cambio di informazioni militari, ma poi lo uccide, beffardamente. Quindi la coppia greca penetra nello spazio dove dormono incauti i Traci, i più recenti alleati di Priamo, e ne fanno una strage, tornando infine carichi di bottino nella tenda di Agamennone. Ci lascia la pelle anche il principe Reso, il cui nome dà il titolo ad un dramma di dubbia paternità euripidea, dalle movenze comiche.

Resta da dire del Coro, che nella nostra versione risulta costituito da sette membri, tre maschili e quattro femminili. Esso partecipa agli episodi come “popolo di Aulide”, che preme intorno al campo per sapere la verità, occultata invece dai politici. Sarà questa gente a rivelare a Clitennestra il sacrificio. Ulisse vorrebbe punire la folla audace, che pretende trasparenza e democrazia, con la morte: ma Agamennone si oppone (quinto episodio, scena 3). I brani corali e la Canzone di Ifigenia (quarto stasimo) mostrano un’eco della poesia di Euripide in vari punti ed in singole immagini; ma sono sostanzialmente nuovi: alcuni originali, altri di altri autori. Completa il quadro una coppia di Guardie armate, emblematicamente silenziose ed obbedienti.

L’Ifigenia fra i Tauri, benché scritta per prima, rappresenta il seguito della vicenda, con un prologo che ci informa sull’antefatto. Ifigenia è stata miracolosamente graziata, ma ora è costretta ad un servizio che le impone di sacrificare ogni greco che sia sbattuto sulle coste inospitali di quella terra, regno del feroce Toante.

Il dramma si svolge tra scenari selvaggi, in un barbarico tempio ornato dei teschi delle vittime. Significativamente, il coro è formato da donne greche, schiave dei Tauri. Un giorno, vengono portati nel tempio due giovani, catturati dagli indigeni subito dopo lo sbarco: si tratta di Oreste, il quale, compiuto il matricidio, invasato dalle Erinni e soggetto a crisi di follia, è fuggito da Argo, e dell’inseparabile suo amico, Pilade. In seguito a molte domande di Ifigenia, che ha in odio il suo ufficio sanguinoso e pensa sempre alla patria lontana, e dopo la celebre, nobilissima gara tra i due amici affinché uno almeno di loro si salvi, Oreste e la sorella si riconoscono e decidono di tornare in Grecia. Tratto in inganno Toante, i tre giovani riescono a fuggire, portando con sé il simulacro di Artemide.

DOPO EURIPIDE

Il mito di Ifigenia fu ripreso occasionalmente da altri autori greci, tragici o eruditi, ma possiamo affermare con certezza che la versione di Euripide è quella che si attesta come classica, cui gli altri si ispirarono, rimanendovi fedeli o deviandone solo parzialmente. Sappiamo che una cothurnata dal titolo Iphigenia fu scritta e messa in scena dal poeta latino arcaico Gneo Nevio (circa 270-200 a. C.). A Ifigenia C. G. Igino, liberto di Augusto, dedica la XCVIII delle sue Fabulae; mentre una pittura parietale pompeiana del I sec. d. C. (oggi al Museo Nazionale di Napoli) ce ne trasmette l’illustrazione forse più celebre. Quindi, nel pieno del Rinascimento italiano, quando il teatro di tipo classico muove i suoi primi passi, il fiorentino Giovanni Rucellai (1475-1525) ne riprende il mito e lo rievoca nella tragedia Oreste del 1520.

Per quanto riguarda Dante Alighieri, il nostro sommo poeta ricorda il sacrificio di Ifigenia nel canto V del Paradiso: qui Beatrice, che sta parlando dell’importanza dei voti, cita quello di Agamennone come esempio di stolta avventatezza:

“…e così, stolto

ritrovar”