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TEATRO E TRAGEDIA IN GRECIA

Da un punto di vista puramente estetico, il teatro (ed in particolare la tragedia) appaiono impliciti nella poesia epica. Aristotele (384-322 a. C.) si accorse della presenza nell’Iliade di alcuni episodi assimilabili a scene teatrali, e ne scrisse nella sua Poetica. In effetti, l’epos costituisce la forma letteraria originale, la più antica, da cui derivano tutte le altre: alcune per opposizione, come la lirica (espressione della soggettività, in antitesi all’oggettività epica) o la storiografia (che è ricerca di verità, spoglia di elementi mitici); altre per filiazione, come appunto il teatro.

Benché i rapporti fra epica e teatro siano abbastanza evidenti, le tappe e i modi della formazione di quest’ultimo restano un problema storico-culturale non del tutto risolto.

In Italia, la prima importante ipotesi sull’origine della tragedia risale a G. B. Vico (1668-1744), pensatore napoletano, precursore del Romanticismo. Ciò che Vico ipotizzava fu poi, in Germania, ripreso e riproposto da F. Nietzsche (1844-1900), il celebre e discusso inventore della filosofia del Superuomo.

Secondo questa ipotesi, la tragedia (tragodìa) deriverebbe dal “canto del capro” (tràgos, capro e odè, canto), ovvero da un momento rituale del culto di Diòniso, in onore del quale si sacrificavano capri. Il capro era anche l’animale totemico, manifestazione ed incarnazione del dio, che assumeva su di sé malanni e colpe, lasciando purificata la comunità dei fedeli (capro espiatorio).

In figura caprina si rappresentavano inoltre i Satiri, cioè quelle divinità minori che facevano da accompagnamento a Diòniso e che simboleggiavano, con la loro figura per metà umana e per metà animale, il senso arcaico della comunione con la natura, il desiderio della fusione con il Tutto: una condizione ottenibile mediante il vino e l’ebbrezza orgiastica.

Durante le feste dionisiache, venivano cantati, da parte di un coro, inni a Diòniso, detti ditirambi. Ad un certo punto, sarebbe nata l’idea di far dialogare tra loro il coro ed il corifèo (o capocoro), i quali avrebbero preso a raccontarsi i casi di Diòniso, ed in seguito di altri dèi e di eroi. Con la successiva aggiunta di uno o più attori, la tragedia si sarebbe andata regolarizzando, quale genere letterario nuovo, a sé stante.

Questa teoria, detta ditirambica, è suffragata dalle riflessioni di Aristotele nella Poetica e da altri autori della stessa Grecia antica; ma non per questo è da tutti accettata. Qui basterà accennare alla teoria alternativa più importante, quella detta eroica, che fa derivare la tragedia dalle ritualità del culto degli eroi o semidei, mentre accetta l’idea del culto dionisiaco come ispiratore della commedia.

Per quanto riguarda ancora Nietzsche, nel suo originalissimo e geniale libro La nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872), il filosofo tedesco tenta di tracciare un’interpretazione complessiva del “mondo greco”. Questo, afferma Nietzsche, ebbe due anime: lo spirito apollineo e lo spirito dionisiaco. Il primo è lo spirito della luce e della vita, dell’equilibrio e della compostezza, che produsse la religiosità olimpica, i miti eroici più solenni, le arti figurative classiche, luminose di bellezza. Il secondo è lo spirito delle tenebre e della morte, della passione e della follia. Lo spirito apollineo creò il mito, e l’epos omerico (IX-VIII sec. A. C.); quello dionisiaco “si interrogò” sul mito, volle cioè farne emergere la drammatica irrazionalità: e così nacque la stagione della tragedia (VI-V sec. A. C.)

Per la commedia, sappiamo che essa nacque successivamente alla tragedia e che andò regolarizzandosi per imitazione di quella. Le sue origini sono da rinvenirsi, secondo i più, nelle spontanee e caotiche farse popolari che accompagnavano, nelle periferie urbane e nelle zone rurali, i riti della primavera e della fertilità (comprendenti le variopinte processioni dei fallòfori). Tali riti si concludevano, nei villaggi dell’Attica, con una processione ed un allegro e corale banchetto, detto còmos, da cui il nome comodìa, canto del banchetto.

Accanto alla tragedia e alla commedia, va ricordato un terzo genere di spettacolo teatrale: il dramma satiresco (satyrikòn), di cui si tramanda che sia stato inventore Pràtina di Fliunte (VI sec. A. C.). Questi lo avrebbe escogitato per accogliere le richieste del pubblico, il quale voleva rivedere sulla scena i satiri, ormai esclusi dalla tragedia. Il dramma satiresco, di rozza forza comico-satirica, prese il quarto posto nei concorsi tragici e fu rappresentato dopo le tre tragedie iniziali di ogni autore concorrente. Un problema storico non ben risolto è però dato dal fatto che nei drammi satireschi di cui abbiamo notizia il coro è costituito da sileni, tra i quali il vecchio Pappo Sileno, démoni-cavalli, con orecchie e coda equine, di origine tracia, come i centauri.

Ben presto, nel corso del VI secolo, le principali città greche si dotarono di teatri stabili pubblici.

L’edificio del teatro (dal verbo theàomai, io vedo) era costituito da una scena (skené, in origine una “tenda”), con davanti un’area semicircolare detta orchèstra (dal verbo orchèomai, io danzo, mi muovo), sede del coro

e delle sue evoluzioni. Gli attori stavano invece sul palco tra la scena e l’orchestra, ad agire il loro dramma (dràma, dal verbo drào, io agisco). Il coro poteva dialogare con i personaggi, ma la sua funzione fondamentale era di riflettere sui fatti e di commentarli.

Al centro dell’orchestra sorgeva l’altare di Diòniso. Il pubblico prendeva posto sulle gradinate del kòilon, in latino càvea. In Grecia i teatri erano all’aperto e gli architetti usavano sfruttare il pendio naturale di qualche collina per deporre le gradinate.

I governi istituirono, in occasione delle varie feste religiose, autentiche “stagioni teatrali”, con premi per le opere migliori. In Atene i concorsi avvenivano durante le feste di Diòniso, che erano tre: Piccole Dionisie o Dionisie rurali (a dicembre), Lenèe (a gennaio), Grandi Dionisie (a marzo). Le rappresentazioni tragiche e satiresche si svolgevano durante queste ultime, gli agoni comici durante le Piccole Dionisie.

Tutto il popolo della polis interveniva a teatro. Era infatti un momento di forte aggregazione sociale, di dibattito etico e politico, di apprendimento e di educazione; vinceva per altro il concorso quell’autore che aveva saputo, secondo i giudici, meglio interpretare l’animo della città. Secondo Aristotele, il pubblico tornava dagli spettacoli avendo acquisito una migliore moralità, grazie all’effetto della catarsi (purificazione delle passioni). Solo il teatro greco ha avuto, nella storia, questa essenziale funzione etica e civile, insieme individuale e collettiva, connessa con le caratteristiche della polis.

Per quanto riguarda la struttura della rappresentazione, questa si apriva con un prologo, seguito dall’ingresso del coro nell’orchestra (pàrodos, ingresso); si succedevano quindi gli episodi (recitati), alternati agli stàsimi (le parti lasciate al coro, cantate ed accompagnate da musica e danza); infine veniva l’uscita del coro (èsodos) e l’epilogo. Nelle commedie era presente un elemento distintivo particolare, la paràbasi. Si trattava di un brano nel quale il corifèo, rivolgendosi scherzosamente agli spettatori, comunicava loro qualcosa a nome dell’autore (consigli politici, argomentazioni letterarie, ecc.)

Fra i principali poeti tragici greci, tutti ateniesi, bisogna ricordare innanzi tutto Eschilo (525-455 a. C.), di nobile stirpe, combattente a Maratona e a Salamina. E’ autore del Promèteo incatenato, dramma del titano benefattore degli uomini, ma punito per questo da Zeus; e de I Persiani, tragedia storica, che celebrava la vittoria della Grecia democratica sui barbari, mettendo in scena il ritorno di Serse sconfitto nella sua patria. Suo capolavoro è però l’Orestea, grandiosa trilogia sul mito degli Atridi. La prima tragedia (Agamennone) rappresenta il ritorno del condottiero da Troia ad Argo, e la sua uccisione per mano della moglie Clitennestra, divenuta amante di Egisto. La seconda tragedia (Coèfore) presenta la vendetta di Oreste, che ritiene suo dovere uccidere la madre sulla tomba del padre, ed è perciò perseguitato dalle Erinni, démoni del sangue e del rimorso. Lo scioglimento giunge nella terza tragedia (Le Eumènidi): Oreste fugge ad Atene, dove è processato dal tribunale dell’Areopàgo, alla presenza di Apollo e di Atena, e dove è infine assolto. Le Erinni reclamano i loro primordiali diritti, minacciando la città, ma Atena le placa, convincendole a farsi benigne e assicurandole che la polis saprà proteggere anche le loro esigenze.

Queste trame indicano che Eschilo è ancora legato ai valori della religiosità arcaica (il primitivo, ma forte senso della famiglia e della stirpe, o ghénos; il rapporto violenza-vendetta, colpa-punizione, ovvero hybris-némesis; le leggi del sangue, ecc.), ma sa proiettarsi verso i tempi nuovi della giustizia e dell’ordine civile.

Sofocle (496-406) fu uomo ricco, di raffinata cultura. In politica fu sostenitore di Pericle. Le sue tragedie rappresentano con forte evidenza il dramma dell’individuo in balia di volontà superiori, che colpiscono spesso gli innocenti (è il caso di Edipo re, che uccide suo padre e sposa sua madre, ma senza diretta responsabilità, ignorando il tutto). Sofocle non perde comunque la fede religiosa, ed anzi suggerisce all’uomo di accettare il dolore e soffrire con dignità, in vista di un premio finale: è quanto accade allo stesso Edipo, vecchio e cieco, accolto finalmente dagli Dèi nella pace del bosco sacro di Colono (Edipo a Colono, ultima opera di Sofocle). Fra le altre tragedie sofoclee, bisogna ricordare almeno Antigone, legata anch’essa al mito tebano: qui la protagonista, figlia di Edipo e sorella di Eteòcle e Polinice, viola un decreto della polis, emanato dal reggente Creonte, e dà sepoltura a entrambi i suoi fratelli, sia a quello caduto per difendere Tebe (Eteòcle) sia a quello caduto nel muoverle guerra (Polinice). Condannata a morte, si vanta di avere obbedito solo all’amore e a quelle “leggi non scritte” che precedono ogni legge, di ogni città.

Il terzo grande drammaturgo è Euripide (485-388).

Molto attento ai fatti della città, benché estraneo alla politica attiva, fu un laico razionalista: vicino ai Sofisti, scettico e tendenzialmente ateo. Con lui la tragedia si va trasformando in “dramma borghese”, ove domina il puro caso (tyche), che intreccia e scioglie ogni vicenda umana. Non mancano tuttavia neppure in Euripide tragedie profondissime e ideologicamente complesse, come Medea (431), la donna straniera, sedotta e poi lasciata da Giasone (rappresentato come un cinico arrivista, che intende passare a più utili nozze): Medea si vendica uccidendo i figli, che pure ama, avuti da Giasone. Quindi ritorna alla sua barbara terra.

Tra le altre opere di Euripide, si possono ricordare Alcesti, Ippolito, Andromaca, Elettra, Elena, le due tragedie dedicate a Ifigenia (in Aulide e in Tauride), Eracle, Oreste, Le Baccanti. Come si può dedurre dagli stessi titoli, prevalgono le figure femminili e le tematiche relative alla condizione e funzione della donna.

Di Euripide è anche l’unico dramma satiresco pervenutoci intero, Il Ciclope, dove pare che si condanni, nella figura di Ulisse, l’imperialismo di Atene e l’atteggiamento poco rispettoso verso le culture non greche.

Per quanto concerne la commedia, il principale esponente di quella antica è Aristofane (445-388). Aristocratico e conservatore, visse e scrisse al tempo della guerra del Peloponneso, sferzando con le sue feroci caricature i politici democratici, che stavano portando Atene alla rovina. Fu avversario dichiarato della Sofistica, di Socrate (confuso con i Sofisti), di Euripide. Le sue commedie contengono molti riferimenti a fatti e personaggi contemporanei, inseriti in vicende di grande fantasia, ricche di un linguaggio libero e potentemente creativo. Tra i suoi capolavori: Le Nuvole, la Pace, Gli Uccelli, Le Rane, Pluto, Lisistrata.

Tutto diverso è invece Menandro (342-291), il più autorevole rappresentante della commedia nuova, vissuto in età ellenistica, quando la stagione delle libere poleis era ormai tramontata. I suoi drammi sono rappresentazioni “realistiche” di persone fondamentalmente positive e di ambienti borghesi, in un linguaggio semplice e fine, dove si cerca di valorizzare l’ideale della filantropia (in latino, humanitas).

Euripide e Menandro saranno gli autori più imitati in Roma. Menandro in particolare avrà in Terenzio un autentico “gemello”.