AULIDE. ULTIMI AGGIORNAMENTI SUL CASO IFIGENIA.
LE TEMATICHE ED IL LINGUAGGIO
Si possono rintracciare nel testo varie tematiche e problematiche culturali, didatticamente e socialmente rilevanti. Ecco in sintesi qualche proposta a riguardo:
RELIGIONE E SUPERSTIZIONE
Entrando in scena, nella pàrodos, il Coro riecheggia Lucrezio (De rer. nat. I, 80-101) ed afferma di temere che i benpensanti, sentendo criticare la religione, possano rifiutarsi di ascoltare, per paura di cadere nel peccato:
“Illud in his rebus vereor, ne forte rearis
impia te rationis inire elementa viamque
indugredi sceleris” (80-82)
Invece, a produrre lutti e sofferenze, “fu la religione, o meglio – la superstizione”: è stata fatta qui un’aggiunta al testo lucreziano, con l’intenzione di precisare il valore semantico del termine latino religio e di porre, se possibile, un distinguo tra religione e fanatismo.
Il tema è certo di primaria importanza, già in Euripide. Ma viene accantonato nel corso del nostro Primo Episodio, a mano a mano che emergono le motivazioni politiche del sacrificio, e solo alla fine ripreso: nella preghiera volteriana ed ecumenica al dio della Ragione, affinché illumini una buona volta l’umanità e la salvi da se stessa (cfr. coro dell’Esodo). Anche lo Studente-Narratore, congedandosi dal pubblico, mette in evidenza i rischi di una fede senza ragione, o, che è lo stesso, di una ragione senza fede.
NECESSITA’ E LIBERTA’
Il tema religioso può rientrare in quello più vasto della Necessità (Anànche), qualora questa sia intesa come Fato o Volontà divina, terribile per l’uomo oppure, al contrario, provvidenziale. Altrimenti – ed è forse il caso di Euripide – la Necessità è interpretabile materialisticamente, come semplice, ma perverso concatenarsi di eventi e di forze, che impediscono comunque all’individuo di decidere in libertà della propria vita e ne condizionano dolorosamente il comportamento. In ogni caso, con un atto della volontà, Ifigenia interviene sul proprio destino, mutandolo in una libera scelta. Sarà vero?
LA RAGION DI STATO
Da Euripide in poi, il sacrificio di Ifigenia si è configurato anche come un caso di necessità politica, un tributo alla cosiddetta “ragion di stato”. Le esigenze dell’individuo e la sua vita stessa risultano secondarie rispetto all’utile collettivo, solo e supremo bene da salvaguardare ad ogni costo. Come dice Machiavelli, il Principe virtuoso deve avere “uno animo disposto a volgersi secondo ch’e’ venti della fortuna e le variazioni delle cose li comandano, e (…) non partisi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato” (cfr. cap. XVIII). La fede religiosa, nella sua irrazionale e sanguinaria veste di superstizione, può in simili casi prestarsi al ruolo di volpino instrumentum regni.
PARTICULARE E DISCREZIONE
Nella nostra tragedia i prìncipi sono parecchi, e tra questi Ulisse pare il più consapevole portavoce del machiavellismo: “…noi tutti, che siamo re, dovremmo sapere quanto la religione, una religione, sia utile ad un ordinato funzionamento della vita dei popoli”, egli dice ad Agamennone, alla prima riunione dei capi; e poco dopo aggiunge: “Ritengo che Menelao abbia detto cose ragionevoli (…) Neppure lui, invero, ha toccato la verità più profonda, quella sola sapienza in cui io credo: l’utile. Collettivo”.
Ma, oltre il machiavellismo (che è pur sempre idealistico), c’è il potere dell’economia, forse l’unico potere concreto che l’individuo possa capire e vantare. Il “caso Ifigenia” si tinge dei colori amari e disincantati dell’uomo del Guicciardini. Ulisse si muove a suo agio nel groviglio melmoso degli avvenimenti, cogliendone soprattutto, con abile discrezione, l’utile suo particulare.
REALTA’ E APPARENZA, PAROLA E INFORMAZIONE
Il teatro greco era essenzialmente teatro di parola: come, del resto, per molti altri generi e settori, della cultura e della società, soltanto la parola aveva il potere di dare vita e dignità alle cose. Ciò che non entrava nel mondo del Lògos, non attingeva la dimensione culturale e sociale, quindi non esisteva. Le capacità evocative della parola erano coltivate al massimo: basti pensare ai lunghi monologhi, ai cori, ai racconti dei messaggeri. Il fatto tragico autentico (l’uccisione, il suicidio, il sacrificio) non veniva guardato con gli occhi del corpo, bensì contemplato con quelli della mente, grazie alla parola.
Riesplorare e ricuperare, almeno in parte, le possibilità della parola, con le varie modulazioni della voce, con l’impostazione delle giuste tonalità, che permettano di evitare la monotonia e tengano desta l’attenzione, inducendo continuamente all’ascolto; rieducare alla parola i giovani di oggi, disabituati quasi del tutto a usare, valorizzandolo, questo mezzo espressivo, pur così naturale, è la cosa più difficile del nostro lavoro. Ma è forse la più importante. E se anche ci saranno errori o mancanze, sarà stato comunque utile avere tentato il cimento.
La parola può tuttavia essere vera o falsa, sincera o bugiarda. Può costruire una realtà oppure demolirla. C’è la parola ingenua, ma giusta, ora spontanea, ora meditata e comunque sempre limpida (orthòs lògos) di Ifigenia; c’è quella monolitica e coerente di Achille; ma ci sono anche la parola incerta ed ambigua di Agamennone; quella sofferta e gridata di Clitennestra; quella lucida di Ulisse, il sofistès, non mai vana né illusoria, per quanto sottilmente ironica o beffarda. Ulisse infatti è convinto che solo la sua parola rappresenti la chiave interpretativa corretta di questo mondo: ma la porta che tale parola spalanca conduce nelle tenebre, e ciò può fare paura anche a Menelao, suo complice o discepolo o succube che sia (Secondo Episodio, Scena II).
Nel nostro testo la parola si presenta anche come informazione: ed è proprio qui che essa mostra gravissima insufficienza, se non totale falsità. I due Lettori, personaggi “fuori scena”, benché “davanti” alla scena, trasmettono al pubblico cinque notiziari, che accompagnano gli episodi del dramma: i primi quattro in apertura degli episodi stessi, anticipandoli; l’ultimo in chiusura, con l’annuncio della partenza della flotta e l’auspicio che la guerra sia breve (ma tutti sanno che l’assedio di Troia durò dieci anni).
Questi telegiornali, come si viene a sapere, dipendono essenzialmente da due tipi di fonte:
le fonti ufficiali (conferenze-stampa, comunicati, ecc.), sotto il diretto controllo di Ulisse, responsabile delle relazioni pubbliche.
le fonti non ufficiali, che raccolgono ciò che si dice fra la gente: supposizioni, pettegolezzi, voci comunque non confermabili, ma registrate e vendute all’ascolto.
Né a né b sono verità. Lo spettatore assiste allo svolgersi della vicenda e, in parallelo, alla sua relativa ricostruzione giornalistica, osservando l’incolmabile gap che si crea fra i due mondi. La parola formale tradisce, non è autentico lògos.
FAMIGLIA E NON
Protagonista della vicenda è, si può dire, una famiglia: quella di Agamennone, di sua moglie Clitennestra, dei loro figli Ifigenia ed Oreste. E c’è anche “lo zio Menelao”, il quale ad un certo punto confida che vorrebbe salvare “sua nipote”. Questo ghènos, in principio unito e felice, in buon equilibrio tra la dimensione privata e quella regale, pubblica, non sopravvive alla violenta intromissione della Storia nel suo più intimo seno, nonostante l’appello di Ifigenia alla madre affinché non odi il marito e il miracolo finale, che dovrebbe avere creato una “patrona celeste” per gli Atridi. Ma il “doloroso furore” di Clitennestra è foriero, come si sa, di successive tragedie.
I tre familiari si ritrovano per l’ultima volta insieme nel Secondo Epilogo, fianco a fianco, eppure ormai nella reciproca incomunicabilità: quella consegnata alla dimensione eterna del mito. Tre personaggi che, purtroppo, hanno avuto un autore, anzi di più.
MASCHILE E FEMMINILE
I diritti materni, violati, portano a rinnegare la famiglia. Questa osservazione induce ad approfondire un altro tema, assai interessante. La donna greca (con l’eccezione delle prostitute e delle etére) viveva chiusa nella dimensione privata, di figlia, di moglie, di madre. Qui stava tutta la sua gloria (kléos), come risulta da molteplici testimonianze letterarie ed epigrafiche. Della donna, in sostanza, si tace.
Ma nella tragedia ella entra nel lògos e può diventare, nella morte, attiva protagonista culturale. La morte tragica è fondamentalmente di due tipi: di spada (sanguinamento) o di corda (impiccamento, soffocamento). La prima è la morte riservata all’eroe maschio, e si qualifica come atto di coraggio (andrèia, da anèr, andròs, uomo!), anche nel caso di suicidio per vergogna, come quello di Aiace, nel dramma omonimo di Sofocle. La seconda è il tipico suicidio femminile, che si consuma nel thàlamos: ad esempio, quello di Giocasta nell’Edipo re del medesimo autore. La donna non porta spada, non combatte, muore solitamente senza sangue. Ciò significa che se una donna si arma, come la Clitennestra uxoricida di Eschilo, essa mira a ”farsi uomo”, pretende la parità.
Una categoria femminile a sé stante, osserva N. Loraux, è quella delle vergini. Esse di norma non si uccidono, ma vengono uccise, quali vittime sacrificali. E’ il caso di Ifigenia, trattato da tutti i tragici. Le parole da questi più usate per l’occasione sono sphàzo (sgozzo) e thyo (immolo), connesse con l’area del sacro. Già in Eschilo tuttavia è presente phònos (omicidio, empietà). La figura della vergine implica due relazioni. La prima è quella con Atena, quindi con una dea guerriera, nata dal capo di Zeus, senza madre. Ciò suggerisce che le vergini sacrificate acquistano, in un certo senso, lo status del guerriero: esse non sarebbero in grado di combattere accanto ai maschi, ma all’occorrenza, immolandosi, partecipano alla salvezza della comunità.
Una seconda relazione è quella con il selvaggio e l’animalesco. La vergine vittima è sovente chiamata orèia mòskhos (giovenca montana), botòn (bestia), aigòn (capra), pòlos (puledra, non doma), ecc. Questo comporta di conseguenza una immagine “sessuale”, o meglio “matrimoniale”: la vittima diventa in effetti “sposa di Ade”, e la perdita di sangue che subisce nella morte vale come perdita della verginità. Euripide, nelle Troiane, fa dire a Ecuba queste parole circa il sacrificio di sua figlia Polìssena, immolata da Pirro sulla tomba di Achille:
“sposa senza sposo, vergine non più vergine” (nymphe ànymphos, parthènos apàrthenos)
Si può notare che, almeno per Euripide, Ifigenia non è passiva. Avendo scelto di immolarsi, non vuole che la si tocchi né la si sollevi sull’altare: così facendo, ella tende ad annullare il proprio sacrificio (o almeno il suo aspetto più selvaggio) e a mantenersi “vergine”.
Ifigenia si appropria di una “morte bella”, da guerriero, degna in tutto di euklèia (bella gloria). Infatti il Coro intona per lei il peàna, canto maschile, di vittoria militare. Si può dire che Euripide abbia scritto una tragedia femminista.
Queste sono soltanto alcune tracce per una possibile ricerca tematica. Altre ancora se ne potrebbero indicare, quali ad esempio:
l’innocenza, la colpa, la vergogna
l’onore, la morte, la gloria
la guerra e la pace
la giovinezza e la maturità
il popolo e l’esigenza democratica
ecc. ecc.
Ma ora domandiamoci: in quale linguaggio risulta scritto (e quindi “detto”) tale esplosivo mix di avvenimenti, personaggi, tematiche e problemi? A Sandra Giacone e Alessandra Rossi in particolare si devono le osservazioni seguenti sullo stile del nostro testo.
Nella tragedia non c’è retorica, non quella almeno di tipo deteriore, che mette subito in fuga i giovani lettori. Tutto viene espresso in una forma semplice e naturale, tanto che la stessa, discussa, decisione di Ifigenia appare credibile (come improvviso slancio di una adolescente generosa e idealista, che desidera farsi più adulta di tutti gli adulti), soprattutto grazie al linguaggio, il quale avvolge ogni cosa in una dimensione reale ed attuale. Si nota una ricerca di armonia: nelle strutture, ben costruite, del dramma, nel ritmo narrativo, nella musicalità stessa delle frasi e dei versi. Il risultato è un linguaggio medio-alto, che rientra nella tradizione classica italiana, senza però diventare inaccessibile e perdere l’opportuna sua modernità.
Non mancano sfumature diverse, di registro. O apparenti contrasti. Si dimostra tuttavia sempre felice la scelta dei vocaboli, anche di quelli in più stridente accostamento con la tradizione e con il testo greco. La presenza dello Studente-Narratore e dei Lettori conferisce una veste di immediata ed accattivante novità, anche linguistica: presentatore, grande fratello, ragion di stato, conferenza stampa, relazioni pubbliche, no comment, caso Ifigenia, sono elementi di un parlato tecnico-giornalistico per noi quotidiano. Anche la terminologia usata da alcuni personaggi introduce vivacità: Pasifile parla di relax per i militari; il mercante (volgaruccio) commenta: “Mica scema la ragazza!” e poi: “Andiamo, bella!”…